Editoriale
Dentisti, professione appannata
Ripercorriamo, punto per punto, l’interessante
inchiesta di Dario Di Vico sul
Corriere della Sera del 21 giugno. Davvero
ne veniamo a sapere delle belle!
Nel 2010 gli studi dentistici hanno fatto
registrare 2,5 milioni di accessi in
meno, ciò significa che 1,8 milioni di
italiani si è dimesso da paziente. I primi
riscontri dell’anno in corso evidenziano
un ulteriore calo di visite di circa
il 30%.
Da qui alcune considerazioni: il
30% dei medici odontoiatrici sta pensando
di cedere o rottamare lo studio.
Due anni di recessione hanno determinato
il declino di un modello professionale
che aveva reso i dentisti fra le figure
professionali più invidiate d’Italia.
E poiché il calo di accessi è più ampio
nelle aree del Paese a maggior industrializzazione
se ne trae la conclusione
che la categoria stia pagando la selettività
della spesa che si è riscontrata soprattutto
nei ceti medi produttivi, quelli
che avevano maggiore disponibilità di
reddito e che oggi, per vari motivi, sono
costretti a risparmiare.
Bisogna prendere atto – dicono all’Andi
– che la mutazione professionale è vissuta
con maggiore sofferenza dai dentisti
meno giovani, quelli che hanno vissuto
l’età dell’oro e meno si adattano
alle turbolenze del mercato. Insomma
a maggior rischio psicologico sembrano
essere i cinquantenni, dentisti professionalmente
maturi, ma ancora giovani
per poter aspirare ad una pensione, costretti
a rinunciare al precedente tenore
di vita, ma ormai troppo in là per tornare
sui propri passi.
A dire il vero non tutti sono rimasti
con le mani in mano.
Circa il 60% sta
cercando di migliorare l’efficienza dello
studio, oltre la metà investe sull’aggiornamento
professionale, circa il 40%
si limita al contenimento delle spese,
il 35% ha deciso di aggregarsi tentando
forme di associazione professionale
che consentano di limitare le spese
e di valorizzare le sinergie fra i diversi
tipi di trattamento.
Non pochi infine si sono limitati a diminuire,
a volte anche drasticamente,
le tariffe.
La nostra è dunque una professione in
fase di contenimento più che di espansione
il cui rilancio, a breve, appare come
un’impresa difficile da realizzare.
L’articolo di Di Vico, che riprende gli ultimi
dati scaturiti da una indagine Andi
in corso fra i propri iscritti, mette in luce
altri elementi negativi.
Ad esempio il dentista non si può riciclare
facendo altri lavori, cosa che invece
è possibile ai medici generici specializzandosi.
Le prestazioni che vengono a mancare
sono quelle a maggior valore, dalla protesi
all’impianto.
E, invece di diminuire gli addetti, aumentano
i soggetti in campo. Si propagano
forme di esercizio imprenditoriali
che puntano alla pubblicità, al porta a
porta, ai prezzi bassi ed agli sconti premio.
Del resto non è raro il caso di trovare
studi odontoiatrici nei supermercati
o addirittura sul marciapiede di periferia,
come fossero normali negozi di
beni di consumo.
Le stesse Asl e le cliniche universitarie
fanno la loro parte cercando di catturare
clienti destinati normalmente alla libera
professione.
Dunque per i dentisti giovani, i trentenni
laureati da poco, è necessario inventarsi
nuovi ruoli. Pochi potranno avere
un proprio studio, la maggior parte è
destinata a fare il “valigettaro”, a trasferirsi,
in qualità di free lance, da uno
studio all’altro, in località distanti o città
addirittura diverse, guadagnandosi
la giornata con collaborazioni saltuarie
e faticose che si faranno ancor più sentire
con il passare degli anni.
Secondo la ricetta della Associazione
bisogna che i giovani puntino sull’associazionismo
e sulla formazione continua.
Debbono inseguire la società che
cambia, venire incontro ai nuovi bisogni
dei pazienti e trovare il modo di recuperare
la clientela scappata via, magari
verso improbabili destinazioni di turismo
odontoiatrico.
In ultima analisi occorre reinventarsi
una professione che fino a pochi anni
fa sembrava fra le più nuove. Ne saremo
capaci?
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